IACOVONE DAY

La discrezione di un attimo

A 42 anni dalla scomparsa della bandiera rossoblù Erasmo Iacovone
   Carlo Esposito

06 Febbraio 2020 - 08:49

Tempo di lettura: 4 minuti

Parlare di Erasmo Iacovone non è mai stato facile per me. Ne sono stato scostante, in tante occasioni, nel più delle volte. Un po' perché per un classe ’74 il ricordo non giunge mai, nelle prestazioni e nel triste epilogo; un po' perché raccontare un’icona, in fondo, non si può mai, al massimo la si può dipingere; un po' perché pensare ad Erasmo, ha, in questo giorno, il senso della commemorazione straziante.


Il più delle volte assume il connotato della partenza francese rievocando le sue prestazioni in rossoblu, cercando il ricordo più personale per accostarsi al mito, per poi finire al tragico quanto deprimente evento della sua scomparsa, come in una clamorosa ritirata spagnola.Ed ogni volta che il 6 febbraio sorge in questa città, il mio primo pensiero volge lo sguardo alla sua famiglia, a sua moglie e sua figlia. Cerco di immedesimarmi, ci provo, e mi scopro pieno di lividi nell’anima e nel cuore pulsante. Mi chiedo come può essere la vita, come può significare l’esistenza di una famiglia cui l’amore di una intera comunità sportiva, si schianta prepotentemente con il dolore di quella data, di quell’ora e di quel minuto.

Paradossalmente pensare che la bacheca, il profilo, il telefono o semplicemente la cassetta della posta dei componenti della famiglia di Erasmo, si possano riempire di messaggi dedicati al dolore di una persona che più non è accanto a noi, mi riempie un pò di mestizia. Normale, dedicare un pensiero al calciatore che diventa in un attimo storia, mito, leggenda ma certe volte dimentichiamo cosa possa esserci dentro, dietro quel “tuo marito è stato il più grande…tuo padre era il più forte…lui si che era sopra tutto e tutti”. Il tutto sempre di corsa, una corsa che dura una il tempo di una giornata, una giornata che dura il tempo di un attimo, di un messaggio, di una foto.
E il tutto con l’impressione malinconica di chi magari non fa caso che, accanto quel dolore, esiste la vita di una persona con nome e cognome, con una vita che è andata, che è dovuta andare avanti e chissà con quale zavorra dentro al petto.

Ho incrociato la moglie di Erasmo diverse volte, l’ho guardata, osservata, scrutata. L’ho vista esultare insieme alla sua tifoseria festante, l’ho vista più volte coinvolta in attività cittadine, a distanza o in prima linea. Non sono mai riuscito a prendere il coraggio a due mani per fermarla e provare ad incrociarne le parole, gli occhi, l’anima, anzi… ho voluto rimanerne distaccato volontariamente, non ho mai oltrepassato la linea di ascolto, accusando me stesso della sensazione di disagio con cui un comune sconosciuto si accosta con un pretesto aleatorio per riagganciare il calciatore simbolo. E mi sono ritrovato immobile, congelato, in stand by con il cuore a sud a voler rendere completo un abbraccio simbolico, con la testa a nord a voler rispettare quella dimensione discreta, intima, personale di una donna personale, intima, discreta.

No so se ne avrò mai il coraggio, mi piacerebbe raccontargli di essere stato il primo a riportare alla luce la sua casacca nei miei 30 anni di collezionismo, di aver pianto per aver ricollegato un pezzo di storia familiare a quella di una intera comunità. Un giorno sono sicuro che ce la farò, come quel giorno feci con sua figlia, quando un amico in comune riuscì a convincerla ad affacciarsi sui balconi di questa città. Era estate, la incontrammo nei presso dello stadio, quello che aveva visto le gesta di suo padre, anch’ella discreta, mamma a tempo pieno di due splendide bimbe, col suo compagno. Si aprì profondamente quel giorno e quelle parole, quei mezzi racconti, quelle confidenze divorarono il mio desiderio di riunire quelle casacche alla primogenita Iacovone.

Passai il tempo a ripiegarle dopo una foto che solcò quell’attimo della mia vita di tifoso e collezionista. Ma ebbi la stessa sensazione descritta per sua madre: davanti avevo una donna, nome e cognome, che aveva perso suo padre senza nemmeno aver avuto la grazia di conoscerlo… morire per salvarsi. Braccia conserte portai quelle maglie al petto, non dissi null’altro. Mi contestarono di non aver proferito parola, che quell’incontro era nostro, soltanto. Un incontro che avrebbe avuto la durata di un attimo.Ma in un attimo, la discrezione pervase più di ogni altra cosa.
La discrezione di un attimo.
Feci un passo indietro, non parlai più, per riferire dentro me quel momento.
Perché raccontare un’icona, in fondo, non si può mai, al massimo la si può dipingere un attimo di due colori.
La discrezione di un attimo.
Grazie Paola, Grazie Rosy
Carlo

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