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Redazione MRB.it |
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Tempo di lettura: 3 minuti
“Oltre alla condizione fisica occorrono la voglia, la rabbia, la passione, la cattiveria agonistica, la felicità
interiore, perché un atleta triste è un atleta che parte sconfitto.”
Così, Alessandro Del Piero, noto calciatore ex Juventus dal brillante passato, inizia il suo libro. Ma è proprio
da questa meravigliosa e sentita citazione che prendo spunto per parlarvi di uno spiacevole viaggio in una
“blasonata” ASD tarantina.
Partenza col botto grazie al “Mister Televisivo”, entusiasmo a mille, con grande spirito d’iniziativa ed
inneggio al sacrificio. Sembravano esserci tutti i presupposti per creare qualcosa di formativo e gratificante,
ma soprattutto meritocratico e stimolante.
Primo step, acquisto del kit: maglia, pantaloncini, calzettoni, tuta e borsone. Secondo step, allenamenti
divisi in più sedi con orari misti, fortunatamente sopportabili. La buona volontà non manca, l’idea di un
insegnante che mastichi calcio a livello agonistico pure, scandito dalla voglia di imparare e far sempre
meglio nello sport che smuove l’Italia. Non v’è la pretesa di essere i nuovi Lionel Messi o Cristiano Ronaldo,
ma solo il desiderio di mettersi “in gioco”. Negli occhi dei ragazzi c’è la voglia di dimostrare qualcosa a chi,
come loro, ha iniziato proprio con qualche genuino calcio ad un pallone, riscoprendosi piano piano.
Improvvisamente appare l’allenamento da sogno allo Iacovone B. Le ambizioni aumentano, tra i ragazzi si
parla solo di questo. Unici compromessi sono gli orari improponibili ed un cambio con un incomprensibile
ed attempato mister. Cambiamenti tutto sommato gestibili con un po’ di organizzazione in più.
Un grande specchio per le allodole.
“Se non sei figlio di…, un ruolo in squadra non lo avrai mai.” E fosse solo questo il problema.
Un universo parallelo dove autostima, voglia di fare e lo stesso divertimento vengono sostituiti da
“raccomandazioni” e amicizie che ti danno la priorità per farti stare in campo. Il merito viene sopraffatto ed
il tuo nome diventa un “Ehi tu”, “Coso”, “Giovane”, o un volgare insulto alla tua “incapacità”.
Nel mentre i “figli di” si gratificano sentendo pronunciare i loro cognomi, pensando di essere qualcosa di
cui la squadra non possa fare a meno. Ad honorem un ruolo specifico, titolarità assoluta ed insegnamento,
cose che ai “figli di nessuno” non sono concesse. Unica esclusiva per questi ultimi è la panchina dove puoi
generosamente intrattenerti con cellulare o scambiare qualche chiacchiera con gli altri “inutili”.
Imbarazzo, nervosismo, vergogna ed umiliazione. Stati d’animo che costantemente devastano giovani
sedicenni che a differenza dei “più fortunati” hanno genitori non coinvolti in alcun modo nel mondo del
calcio o delle “amicizie speciali”.
Un sistema disturbante che, come un tarlo, si insinua sempre più in profondità, non fondando le sue basi
sulle reali capacità dei giovani.
Non tutti riescono a rimanere in silenzio dinanzi alle ingiustizie subite. Inspiegabilmente paghi per veder
denigrare ed offendere tuo figlio, che non sarà un campione, ma che merita le stesse attenzioni dei
“FIGLIDI”.
E non è tutto.
Se, malauguratamente, un genitore si permette di sottolineare la situazione, viene aggredito verbalmente
senza alcun tipo di rispetto, soprattutto se a farlo notare è una donna.
Il ragazzo, di conseguenza, si
guadagnerà il privilegio di un posto fisso in panchina, con una bella percentuale pari a 0 di entrare in
partita.
Esperienza scandalosa che indubbiamente porta ad una conclusione: la morte del calcio nel settore giovanile.
Tutta la buona volontà, la passione e la mentalità di giovani propositivi viene messa da parte, dando spazio
a rassegnazione, delusione ed un pizzico di speranza che, purtroppo, non vedrà mai un lieto fine.
Una situazione fuori dal comune che porta con sé tanta amarezza e rammarico, causato da elementi
ingiustificabili ed insalvabili.
Portano con loro la nomina di allenatori, mister ed educatori, quando alla fine di educazione sanno ben
poco.