IL RICORDO

Il poeta, l'uomo, il tifoso: 20 anni senza Fabrizio De Andrè

Sono passati vent'anni da quella notte fredda dell'11 Gennaio 1999
   Emiliano Fraccica

11 Gennaio 2019 - 13:29

Tempo di lettura: 4 minuti

Sono passati vent'anni da quella notte fredda dell'11 gennaio 1999, quando uno dei più grandi poeti italiani si assopì per sempre, con "un solco lungo il viso, come una specie di sorriso". E dire che Fabrizio De André in questi vent'anni non ci sia mancato sarebbe quasi una bestemmia.

Il modo con cui sfiorava le corde della sua amata chitarra, il ciuffo davanti agli occhi che si ravviava in continuazione, quella sigaretta sempre, dannatamente, presente, tutto questo è davanti a noi come se Faber non se ne fosse mai andato via.

Poco potremmo dire della sua vita che non sia già noto ai più: il rapporto non idilliaco col padre, i problemi con l'alcol, il rifiuto per le autorità, il primo matrimonio, frettoloso, con Enrica Rignon, gli anni della giovinezza insieme a Paolo Villaggio per tentare si sbarcare il lunario, la tensione intermittente verso la religiosità, l'incontro con Dori Ghezzi che poi diventerà la donna della sua vita.

E che dire delle sue canzoni, ancora oggi marchiate a fuoco nella memoria di almeno quattro generazioni, vere e proprie poesie con arrangiamento che ci hanno sempre raccontato degli ultimi, delle storie finite male, degli amori così forti e così strazianti da fare male al cuore.

Ma in pochi sanno di una delle poche fedi del De André sempre professatosi agnostico, una "fede laica", come lui stesso ebbe a definire. Ebbene sì, il calcio aveva conquistato anche lui. Come Saba, Pasolini, il pallone era entrato nel cuore e negli occhi di Faber, dimostrando quanto siano sbagliate le frasi che definiscono questo sport come "ventidue uomini in pantaloncini che corrono dietro a una sfera", niente di poetico insomma.

Due colori nel cuore, il rosso e il blu, e un grifone dorato. Non si può dire nemmeno che Fabrizio fosse un tifoso del Genoa. Ne era innamorato. E a chi gli chiedeva perché non parlasse mai della sua squadra, De André rispondeva così: "Non posso scrivere del Genoa perché sono troppo coinvolto. L'inno non lo faccio perché non amo le marce e perché niente può superare i colori della Gradinata Nord. Semmai al Genoa avrei scritto una canzone d'amore, ma non lo faccio perché, per fare certe canzoni, bisogna conservare un certo distacco verso quello che scrivi, invece il Genoa mi coinvolge troppo".

L'amore verso questi colori spingeva De André a tenere un'agenda dove appuntava le formazioni del Genoa e le tabelle con i punti restanti per conquistare l'agognata salvezza in Serie A. Ma di Fabrizio restano anche alcune riflessioni sul mondo del pallone, compresa questa eziologia del tifo violento: "Che cos'è il tifo? E' una sorta di fede laica, è il bisogno di schierarsi a favore di un partito, simbolizzato da immagini, da un colore, ma che si pretende essere sostenuto da una tradizione e da una cultura diverse da quelle degli altri: il tifo nasce da un bisogno forse infantile ma pur sempre umano di identificarsi in un gruppo che ha come fine la lotta per la vittoria contro altri gruppi. Questo desiderio primario può essere contenuto in una rivalità sportiva o sconfinare nel fanatismo, ma questo penso sia una problema che in parte deriva dal carattere dei singoli, in parte dall'educazione che i singoli ricevono dalla società. Voglio dire che un individuo facilmente influenzabile, a cui la società insegna continuamente che la vita è soltanto una lotta a coltello per la sopravvivenza, facilmente diventerà un fanatico e nel momento in cui ipotizzerà la sconfitta della propria squadra in cui si identifica per un bisogno di protezione, considererà tale sconfitta, sia prima che la sconfitta si verifichi, per scongiurarli, sia dopo che s'è verificata, per vendicarsi... Il fattore "fanatismo" anche questo deriva dai pessimi esercizi e dai cattivi insegnamenti degli oligarchi e della civiltà dei consumi" .

Fabrizio De André, cantore della vita più sporca e amara, poeta del popolo, ma anche innamorato, come tutti, di un pallone bianco e nero, di quegli spalti dove si respira un odore a metà fra la nicotina e l'erba calpestata, di una passione che ci spinge allo stadio per l'ennesima, maledetta domenica.

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