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Gli assassini dello sport e il retaggio del sospetto

Dalla rubrica 'La Tribù della domenica' di Michele Dentico
   Michele Dentico

27 Novembre 2019 - 10:50

Tempo di lettura: 6 minuti

“La patologia più diffusa a Taranto non è il tumore ma la paura di avercelo”. Lo sosteneva S. qualche sera fa. Diceva che negli ospedali della provincia si registrano una cascata di codici bianchi: “Une ten nu raffreddor, o tene nu fastidie rete a l recchie, e a prime cos ca penze è ca tene nu tumore”. Una isteria paranoide collettiva di una popolazione perennemente sotto scacco, prigioniera di una situazione da cui non vede via di fuga, nessuna parvenza di luce in fondo al tunnel: istanze e vertenze che cadono nel vuoto, qualsiasi esse siano, ignorate dai media, la costante paura di aggiungersi ad amici e parenti, che da un giorno all'altro hanno visto trasformare – o spezzare – le proprie prospettive di vita. Il territorio rimane saltuaria e temporanea passerella per (quasi) tutti i tipi di politici. L'impotenza nel vedersi sacrificati sull'altare del Pil s'è provata talvolta a smentirla, con alcuni dei più noti esponenti della scena istituzionale che per sottrarsi alla disordinata rabbia popolare si sono asserragliati in edifici sicuri. Eppure la situazione è quella: impotenza. Il campo decisionale è totalmente deterritorializzato: non è qui – non spetta a un noi. Forse non è neanche ora.

Paranoia e impotenza si ripresentano anche nella sfera calcistica. Ma prima di continuare devo premettere: antropologi e sociologi in questi anni mi hanno chiesto in che misura siano possibili dei parallelismi tra la città e lo stadio. Io ho spesso mosso una certa cautela, non tanto perché non sia possibile rintracciare dei legami – tutt'altro –, quanto per il fatto che certe cose assodate nella sfera cittadina tendano, intorno ai gradoni dello Iacovone, a vivere di tentativi di smentita e a volte anche sovversione.

Eppure questi due elementi tornano. Non nella stessa forma, non mossi dalle stesse cause, forse nella stessa sostanza. Questo perché, così come per far scattare il campanello d'allarme del tumore basta anche un piccolo fastidio, a Taranto basta una sconfitta perché inizino serpeggiare certe voci: è venuto meno il fondamento della sportività, il fatto cioè che la partita non sia stata giocata, che il risultato sia stato pre-stabilito. È questo l'elemento fondativo dello spettacolo sportivo e bisogna allora sempre diffidare da chi vorrebbe trasformare gli stadi in teatri. Le pièce teatrali basano la loro buona riuscita proprio nella capacità degli attori di interpretare una sceneggiatura decisa a monte, riprovata allo sfinimento, imparata a memoria. Lo sport invece produce l'emozione di partecipanti e spettatori proprio nel suo costitutivo divenire e dispiegarsi in contingenza. Qualsiasi atto contrario sarebbe la negazione dello sport, la sua morte o, meglio ancora: il suo omicidio. Sportivamente parlando, niente di più grave.

Lo Iacovone – si è pronti a giurarlo! – si è trasformato talvolta da stadio in teatro, nel penoso senso appena descritto. Se Taranto – Catania nel migliore dei casi è un'allucinazione collettiva, Taranto – Matera è una verità giudiziaria per l'intervento della tifoseria e di un calciatore tarantino di nascita, che insieme sovvertono l'atavica impotenza che attanaglia la cittadinanza e scongiurano il tentativo di compravendita della squadra ospite; il fatto è accertato, la pena inflitta risibile. Allora, qualche anno dopo – proprio nel tentativo di sovvertire il proprio destino – alcune partite sospette hanno fatto scattare il campanello d'allarme, e il tentativo di “vendicare gli omicidi” e restituire il caso almeno alla “giustizia popolare” è costato diffide tra i tifosi ed auto-epurazioni eccellenti dei calciatori accusati di essere assassini di sport, accompagnando il tristissimo epilogo dell'ultimo campionato di professionismo. Lo stesso campanello scatta per l'ennesimo largo trionfo di uno dei tanti modesti avversari di questa triste epoca. È come quel mal di testa che ti porta al pronto soccorso, pronto al pensare al peggio: si tratta anche stavolta di omicidio del gioco? Social che traboccano di commenti di biasimo e accuse, in circolo anche delle “prove” che fanno il giro della città: un audio proveniente da altri lidi che “mette in guardia” – la foto di una puntata sospetta. Se ne sono sentite e se ne sentono troppe nel calcio, le cronache giudiziarie sono piene e chissà quanti di questi episodi rimangono nell'oblio. In fondo, come chiosava Andreotti, a pensar male si fa peccato ma spesso ci s'azzecca. Bastano questi due indizi a provare qualcosa? E in questo clima di perenne sospetto, basterebbe l'assenza di prove a provare l'assenza di combine?

Nella foto del biglietto incriminato che circola in città puntata e vincita sono debitamente cancellati. E allora se si controlla su internet – “basta prendere il codice del biglietto e metterlo su scommettendo.it”si scopre che la scommessa è di soli 15 euro e l'importo meno di 100, che è a pensarci bene sembra un po' poco per catalogarla come prova di combine. Eppure, c'è qualcuno che è disposto a mettere la mano sul fuoco per difendere i protagonisti in campo da questa speciale accusa di omicidio? Difficile. È come chiedere a un tarantino se è assolutamente certo che quel-forte-mal-di-testa-che-accusa-da-stamattina non sia un tumore. Ma non per questo bisogna rinunciare a ragionare un attimo con la testa. Anche perché, se col codice bianco c'è la possibilità di capire se quel mal di testa è veramente tutt'al più solamente una banale sinusite, entrando nel campo di questo opaco calcio di periferia la paranoia più difficile da smentire – e l'impotenza si è capaci di sovvertire – e credere ad una banale e pesante umiliazione casalinga è un'operazione meno immediata di quel che sembri. Se i sospetti si tramutano in convinzioni, la ricerca della prova dell'assenza è un gioco al massacro: di mezzo ci andrebbe – tanto per cambiare – la passione della “comunità della domenica dello Iacovone”.

Allo stesso modo, abbassare la soglia di attenzione, prendere sottogamba certe avvisaglie, potrebbe essere un modo per impedire di inquinare ancora le torbide acque della storia recente in cui mestamente navighiamo a vista da anni? O potrebbe al contrario mettere seriamente a repentaglio la fiducia nell'evento sportivo calcistico tarantino? E se questo retaggio del sospetto fosse invece un necessario anticorpo con cui la comunità tifosa opera la sua personalissima resistenza? E se fosse questo il modo con cui la tifoseria riesce ancora a dare un senso alla sua appartenenza – come se in assenza delle gioie sportive ci si mantenga almeno guardiani della buonafede del gioco? Chi ci vede sempre lungo chiamerebbe questo tentativo ingenuità. L'antropologo, più cautamente, individuerebbe la produzione di un'identità e di una forte etica del gioco. Ma qualunque sia la sua definizione si tratta di una situazione ambivalente, tra paranoia (è davvero successo di nuovo?), impotenza (quel che faccio porta davvero a qualcosa?) e voglia di sovvertire (cambiamo questo destino avverso!). Con una rabbia da organizzare (ma, eventualmente, contro chi?) e il retaggio del sospetto – legittimo – da gestire o invalidare. Gli assassini – dello sport – da smascherare.

Ecco a voi come si mescolano gli ingredienti della disaffezione. E provate pure a trovare tutti i parallelismi tra stadio e città: alla fine dei conti il calcio a Taranto è molto più di un pallone che rotola.

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