TARANTO FC

E' tornato il nuovo nemico: l'Ultras (che accende i fumogeni)

Un tifoso rossoblù ha rimediato un daspo per l'accensione di un fumogeno
   Michele Dentico

13 Settembre 2019 - 21:00

Tempo di lettura: 6 minuti

Diciamocelo: non abbiamo bisogno della semiotica per comprendere quanto sia miope un intervento come quello effettuato nella giornata di oggi dalla Questura di Taranto e dal conseguente comunicato stampa, che definire pasticcione è un eufemismo. È tornato - quanto ci era mancato! - il "tifoso cattivo": questa volta così malvagio da accendere addirittura un fumogeno durante la partita. Ma è necessaria una premessa: "Una netta distinzione tra tifosi buoni e cattivi presuppone un'opposizione semantica che ormai non può essere chiave di lettura neanche delle contemporanee narrazioni letterarie, televisive e cinematografiche. Ma al di là di questo, quello che ci interessa è che l'assunzione di questo paradigma ha determinato una serie di interventi governamentali che hanno modificato alcuni degli aspetti che rendono caratteristica la pratica del tifo. Questi interventi fanno parte di un disegno legislativo che dobbiamo considerare nella sua forza modellizzante e che a nostro parere incide irrimediabilmente sugli elementi che fondano le passioni, le peculiarità – e, per certi versi, il piacere – dello stare allo stadio. Risulta quindi necessaria una decostruzione precisa delle componenti delle pratiche di tifo e di fruizione degli stadi per comprendere se questi interventi trasformativi sono capaci di generare disaffezione negli appassionati" (p. 160). E allora, che dire?, proviamo a ragionarci su:

1) la motivazione del Daspo sarebbe questa – una roba quasi di ispirazione frenologica - "Per il concreto rischio di incendio derivante dalle fiamme sprigionate dall'artifizio ed essendo il comportamento del tifoso sintomatico della sua personalità incurante delle conseguenze per l'ordine e la sicurezza pubblica nei luoghi in cui si svolgono le manifestazioni calcistiche". A riprova di quanto sostenuto, la questura produce la seguente descrizione: "In particolare durante il secondo tempo dell'incontro di calcio, tra i tifosi della Curva Nord si è sollevata una densa cortina di fumo che ha ridotto notevolmente la capacità visiva e di orientamento del pubblico presente". Si tratta di un assoluto paradosso, poiché come spiegavamo in Sul tifare il Taranto, i tifosi estremi "coniugano una peggiore capacità di lettura ad una pratica di supporto più incisiva" (p. 123).
Quella che si produce all'interno dello stadio, ma in particolar modo della Curva, è una pratica sociale che fa in modo che il tifoso diventi il "dodicesimo uomo in campo, abbattendo idealmente i limiti delle barriere che dividono gli spalti dal campo con atti creativi e collettivi figurativi, testuali e testualizzanti come cori, battimani, tamburi, fumogeni, sventolio di bandiere, coreografie, ecc.. In altre parole, si rivendica una partecipazione attiva" (p. 66). Inoltre, "nell'anello inferiore della curva nord – dove la difficoltà di lettura è massima – tutti i soggetti che occupano lo spazio seguono il match rimanendo in piedi, cantando, urlando, fischiando. Si delineerebbe una pratica per la quale è necessario essere nella migliore posizione come osservatore per chi non si "accontenta" solamente di osservare" (p. 65).
Insomma, per farla breve, il fatto che l'accensione di un fumogeno sia legata a un comportamento sintomatico della personalità e non alle consuete condotte dei tifosi all'interno di uno stadio farebbe sorridere anche un bambino di tre anni. In più, possiamo seriamente dubitare che esista un solo tifoso presente in curva che abbia pensato che il proprio godimento dello "spettacolo" sia stato messo in qualche modo a repentaglio dall'accensione del fumogeno – e se dovessimo sbagliarci lo invitiamo ad alzare la mano e dire "presente!".
E delle due, l'una: o il questore è totalmente digiuno della materia di pratiche di tifo e da stadio, o si sta producendo nella fantasiosa descrizione di un reato che però sembra non avere alcun fondamento. Prendendo per buona la prima, ci viene in mente ciò che diceva Nanni Moretti quasi quarant'anni fa: "Io non parlo di cose che non conosco".

2) Si sta producendo in queste ore quella che appare una strumentale relazione tra due interventi – il Daspo e un altro provvedimento legato alla chiusura di un circolo che sarebbe un luogo di vendita di stupefacenti. In questo modo non si fa altro che descrivere i due elementi come se fossero legati a doppio giro nel segno dell'illegalità: una piroetta che non ha alcun riscontro giuridico (oltre che socio-antropologico) che correla i pericoli "dello spaccio di droga" e quelli che riguardano "la pubblica sicurezza" negli eventi sportivi. Si mischia letteralmente una delicatissima questione criminale-socio-(e anche)sanitaria con la produzione della cultura da stadio che, con tutti i suoi limiti e le sue problematiche, è una faccenda ben diversa. E se questa descrizione proviene da alcuni media poco avvezzi alle analisi più approfondire è il caso di dire che "non fa notizia" ce lo si può aspettare, siamo costretti a diffidare dalle istituzioni - soprattutto quelle che possiedono l'esclusiva dell'uso della forza e della violenza all'interno di uno "stato democratico" - che semplificano in questo modo questioni che meriterebbero ragionamenti più profondi e non meramente poliziesco repressivi.

3) In alcuni articoli della stampa locale si ricorda "che è vietato introdurre all'interno dell'impianto sportivo, oggetti idonei all'offesa, bandiere, sciarpe o altri mezzi di comunicazione che contengano frasi o singole espressioni estranee alla competizione sportiva ed offensive per le squadre di calcio, nonché striscioni non autorizzati preventivamente". Queste precisazioni fanno il palo con le argomentazioni pretestuose messe in campo per giustificare il provvedimento di Daspo e le strumentali correlazioni per dar man forte all'azione repressiva: un'architettura che risulta fin troppo debole, anche se tutta questa orchestra non è nulla di nuovo per chi produce certe pratiche. Appare invece fin troppo chiaro, come si notava nelle conclusioni di Sul tifare il Taranto, che: "Il fine di queste norme è l'esercizio di un potere coercitivo che ha in potenza lo scopo di eliminare le forme di violenza all'interno degli stadi, ma in sostanza si configura come l'esercizio di un potere biopolitico che disciplina i corpi, arrestandone alcuni movimenti alla radice, e in questo modo tenta di produrre delle nuove soggettività tifose. Si disegnano moltitudini eterogenee, ripulite dal loro carico conflittuale […]: acritiche, ma appassionate e votate al sostegno totale; allo stesso tempo mansuete, manipolabili, "politicamente corrette" nel segno di una valorizzazione mobile basata sulla spinta del momento e cieche sostenitrici delle proprietà. E la partecipazione subordinata alla capacità di governare le proprie passioni con razionalità binaria da automa: il prodotto è un perfetto consum-attore" (p. 181). Ma forse nell'ultima parte descriviamo una progettualità che non è neanche nelle corde e nelle intenzioni di istituzioni così cieche e slegate dalla realtà, anche se, come si spiega nella stessa nota: "Si vuole fare in modo che lo sport venga vissuto da quella gran parte di cittadini come reale momento di distensione e di condivisione anche a livello familiare".

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