TARANTO FC

Maddè, 'Manca la passione e l'idea di far appassionare i ragazzi al calcio'

MRB.it intervista l'ex calciatore e capitano del Taranto nel campionato 2004/2005
   Angelica Grippa

11 Ottobre 2018 - 10:03

Tempo di lettura: 6 minuti

Emiliano Maddè, terzino sinistro, arrivò a Taranto nella stagione 2004/05, in un momento tragico per la squadra che si avvicinava al fallimento. In seguito giunse Blasi che prese in mano le sorti del club, e ci fu una rivoluzione totale. Calciatore dalle grandi doti umane, venne scelto come capitano a guida del Taranto, uno dei pochi a disputare tutta la storica stagione. Alla fine la squadra si salvò nello spareggio a Ragusa.

Signor Maddè lei ha militato nel Taranto nella stagione 2004/05, la prima parte di questa stagione fu molto complessa, poiché la sua squadra si avviava al fallimento. Mi parli di come si viveva in quel Taranto, tra sacrifici e la maglia attaccata al petto.
"Noi eravamo una squadra di calciatori giovani. I dirigenti del Taranto, chi gestiva il campo, ma anche il magazziniere, tutti conoscevano la situazione, e tutti, con il loro lavoro hanno dato un valido aiuto alla squadra. Eravamo ben voluti e coccolati, sia dai tifosi, che riconoscevano la delicatezza del momento, che dagli addetti al lavoro. Mi ricordo che eravamo ospitati in bellissimi hotel, non in pessime strutture, e chi ha potuto fornire aiuto l'ha fatto. Ci sono stati vicini a livello economico ma soprattutto a livello umano".

Com'era il rapporto con gli altri compagni e quale aria si respirava nello spogliatoio?
"Eravamo tutti sulla stessa barca, mi ricordo di un gruppo bellissimo. Tanti ragazzi giovani, come Mignogna, un talento di Taranto che aveva un feeling particolare con l'ambiente. Lui ci portava a conoscere le diverse situazioni di questa città. Poi c'era il mister Sabadini, una bravissima persona, che per noi è stato un padre calcistico, gli volevamo bene. Ma anche i tifosi lo stimavano, un uomo che si è preso questo impegno e l'ha mantenuto sin quando ha potuto".

Nella seconda parte della stagione, precisamente a dicembre, arrivò Blasi. Cosa cambiò immediatamente?
"Arrivò non solo un presidente, ma un punto di riferimento. Blasi era vulcanico, con le idee ben chiare, molto preparato e sapeva cosa voleva fare a Taranto. Blasi ha cambiato le carte in tavola, ha scelto lo staff e i vari calciatori. La sua rivoluzione fu totale, infatti chiamò mister Toma, affiancato da Nemo. L'allenatore dal carattere fermo, condivideva con il presidente una linea comune. Parliamo di anni in cui Ventura e Conte erano ancora calciatori, oggi sono diventati allenatori e forse si sono un po' ispirati al calcio dl mister Toma".

Lei è molto ammirato dalla tifoseria rossoblu, dove trova le motivazioni reali di cotanta stima?
"Perché ero uno di quei calciatori che giocava per la maglia, pur non essendo di Taranto, mi sentivo tale. Giocavo per la città e i tifosi lo percepirono. Mi sono ritrovato a fare il capitano, per una scelta condivisa. Non lo facevo per la fascia al braccio, ma per la gestione del gruppo. Fu la squadra che me lo chiese, ne fui felicissimo perché apprezzato per i miei valori umani. Per il bene di Taranto dovevamo salvarci, solo questo contava, in mezzo ad una serie infinita di difficoltà".

Quali erano gli altri calciatori che insieme a lei presero le redini della squadra? E com'era il suo rapporto personale con Mignogna, giovane promessa dell'epoca?
"Mignogna era un bravissimo ragazzo con doti tecniche non indifferenti. Quella stagione si può suddividere in due parti: la prima più difficile, che vide altri calciatori supportarmi; e la seconda dove uomini dallo spessore calcistico e umano come Monaco cambiarono profondamente l'ambiente. Ho dei bellissimi ricordi di quel periodo, l'unico rimpianto furono i risultati con Mister Toma. Venne in un momento delicato, durante la sosta di Natale e non ebbe la possibilità di imporre il suo gioco. Magari se fosse arrivato in estate, avremmo visto altri risultati".

Segue ancora il Taranto? Questa squadra non vive una fase rosea, non riesce a risalire dai dilettanti. Lei da esterno, se dovesse individuarne le motivazioni?
"Le dico che il campionato dilettanti è difficile, perché c'è il fattore 'giovani'. Vi militano almeno tre squadre con giovani forti che mirano solo a vincere. Lo vedo anche nella nostra provincia, ad Alessandria, le squadre che riescono a vincere un campionato, sono quelle che hanno la fortuna di collaborare con squadre importanti come il Torino, la Juve, l'Inter che gli forniscono giovani talentuosi. Questo gli permette di avere squadre davvero competitive".

Cosa fa attualmente, calcisticamente?
"Niente, a livello calcistico. Se non allenare una squadretta della parrocchia, sotto la guida del parroco, mi diletto con ragazzi un po' 'agitati'. Avendo uno studio di osteopatia, sono libero nel pomeriggio e mi dedico a questi ragazzi, in modo da non lasciarli in strada a fare disastri. Seguo solo i risultati delle partite, non ho più la voglia e il tempo di sapere delle formazioni".

Cosa è cambiato realmente nel sistema calcio attuale, che ha portato ad un'inevitabile disgregazione. Cos'ha inciso di più, la parte tattica ed economica, oppure il tramonto dei valori umani?
"Secondo me manca gente della mia generazione che riversi il proprio tempo sui giovani gratuitamente. E' importante dare un futuro ai giovani, non investire il tempo solo in funzione dei soldi. I ragazzi si sentono un prodotto, e ti chiedono subito il pagamento. Manca la passione, e manca l'idea di far appassionare i ragazzi al calcio. Io gioco ancora oggi, a 45 anni, perché ho la stessa passione di quand'ero ragazzino. Invece adesso nei bambini trasmettiamo solo l'idea di arrivare a giocare in Serie A, e quando non c'arrivano, smettono. Io non ho giocato a Taranto perché volevo diventare ricco, l'ho fatto perché più di tutto mi piaceva. Anche campioni del calibro di Ronaldo o Messi fanno lo stesso, se non sei guidato da questi valori prima o poi smetti. Nel calcio giovanile non vendiamo più calciatori appassionati, ma dei prodotti. Gli accompagnatori sono solo i genitori, in più non esiste più la figura del dirigente che a tempo perso osserva e investe sui giovani. L'allenatore fonda tutto sul proprio interesse, e ha come obiettivo principale vincere il campionato, non investire la propria passione".

Quindi bisognerebbe riversare maggiore attenzione sulle risorse umane, a discapito del valore economico, che si è mangiato il calcio?
"Si, in questo vedo anche l'egoismo degli allenatori che non si preoccupano di un gruppo forte, ma solo di sé, per vincere. Io ho avuto la fortuna di avere allenatori che mi hanno sempre portato al confronto con i calciatori più grandi. Ed è solo attraverso questo tipo di confronto, che puoi imparare valori come l'umiltà. Invece oggi i tecnici vogliono solo calciatori forti senza porgli nuove esperienze, arrivano nelle categorie alte, colmi di ego, e poi si smontano. L'errore non è del ragazzo, ma nel sistema che deve ritrovare quei valori che si sono persi. La colpa è di quelli della nostra generazione, non siamo dei buoni educatori. Il calcio rispecchia sempre un po' la società".

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